Intervista a Francesco Coco
Francesco Coco assapora una granita al cioccolato e sorride spesso. E’ contento della sua vita. Con semplicità
parla della sua infanzia trascorsa in Sicilia, e del suo presente, sintetizzato in due parole, Milan e Nazionale, due squadre
nelle quali spesso quest’anno ha svolto un ruolo da protagonista. Alla fine esprime un desiderio: “Giocare fra
alcuni anni con il Catania in serie A”.
I pochi momenti liberi
(quest’anno fra campionato, Nazionale, Champions League e Coppa Italia, ha giocato quasi sessanta partite) li trascorre
con i genitori a Milano. Ma quando può, si reca a casa della nonna, a Paternò, in provincia di Catania, dove è nato l’8
gennaio 1977. Questa conversazione si svolge proprio in quella casa, mentre la nonna Rosaria lo guarda con orgoglio ed ogni
tanto interviene. Alle pareti del salotto sono appesi due gruppi di foto: da un lato c’è il nonno Iuzzu (diminutivo
di Francesco), morto nel ’93, con la maglia del Paternò; dall’altra Francesco con la casacca rossonera. C’è
un’immagine che accomuna entrambi: un irresistibile colpo di testa –specialità di nonno e nipote- con la palla
che si insacca alle spalle del portiere avversario. “Mio nonno mi ha insegnato a non esaltarmi mai”, dice Francesco,
“a stare sempre con i piedi per terra, a non pensare mai di essere arrivato. I suoi insegnamenti mi hanno dato la forza
per continuare verso il traguardo che mi ero imposto. Anche se non c’è più da otto anni, lo porto sempre dentro di me,
soprattutto quanto sono contento. In una intervista televisiva rilasciata recentemente a ‘Dribbling’ mi hanno
chiesto: ‘Chi è il tuo portafortuna?’. ‘Semplicemente mio nonno’, ho risposto”.
Il giocatore ha un
tatuaggio al braccio destro: una frase in cinese che riproduce i nomi di suo padre, di sua madre, di sua sorella; al centro
c’è lo stemma dell’amore. “Me lo feci fare due anni fa a San Diego, negli Stati Uniti, durante una vacanza
di 25 giorni, in un momento in cui sentivo la loro mancanza. La famiglia è tutto per me. Mi ha insegnato a credere in due
valori: la fiducia e il rispetto”.
Per capire il destino
di questo campione, bisogna riportarsi al 1972, quando i suoi genitori, Nino e Giovanna, appena ventenni, dopo un periodo
di fidanzamento decidono di fare la fuitina, la fuga, per affrettare il matrimonio. Nasce Monica, la primogenita. “I
primi tempi”, spiega la nonna, “furono molto duri. Nino non aveva un lavoro stabile”. Cinque anni dopo nasce
Francesco. Ma la sua presenza a Paternò dura sì e no dieci mesi. Il padre nel frattempo ha conseguito il diploma di geometra
e “per chiamata diretta” va ad insegnare applicazioni tecniche in una scuola di Rescalda, alla periferia di Milano.
Porta con sé la famiglia, che risiede in uno degli anonimi paesi della cintura milanese, Cerro Maggiore, ma il cuore rimane
in Sicilia.
Nei primi tempi non
è un gran vivere, il freddo, la nebbia, la mancanza di calore umano, la nostalgia per la Sicilia non facilitano l’inserimento.
Quando possono, Nino e Giovanna si recano a Paternò, dopo qualche giorno tornano a Milano, ma Francesco e Monica restano coi
nonni per diversi mesi.
“I primi calci”,
dice Francesco, “cominciai a tirarli in questo corridoio, non ad un pallone vero ma a dei fogli di giornale accartocciati
ed appiccicati col nastro isolante. Ore e ore a tirare di destro, di sinistro, di collo, di piatto, prendendo come modelli
i campioni di quei tempi, primo fra tutti Paolo Rossi, del quale conservo ancora la maglietta che mi regalò mio padre, juventino
sfegatato”.
Le presenze di Francesco in Sicilia cominciano a ridursi dal momento in cui comincia a frequentare le elementari:
quindici giorni a Natale e a Pasqua, tre mesi in estate alla Playa di Catania dove ancora c’è gente che ricorda le sue
straordinarie prestazioni atletiche. Poi, in una fredda giornata d’inverno, il destino interviene nuovamente. E’
il 1984. Francesco quando è in Lombardia, ogni pomeriggio gioca al pallone con degli amici in un campetto sotto casa. Un giorno
un signore ferma suo padre e gli dice: “Mi affaccio sempre dal balcone per vedere giocare suo figlio, ha un talento
straordinario. Perché non lo iscrive in qualche squadra?”. “Per la verità non conosco nessuno”. “Domani
le presento i dirigenti del San Vittore, una squadretta dei dintorni”. “Dall’indomani”, ricorda Francesco,
“indossai la maglietta di quella squadra. Numero 9. Centravanti”. Un ruolo che con l’andar del tempo cambierà:
prima terzino, poi mediano, sempre sulla fascia sinistra. L’età minima per giocare è di 8 anni, lui ne ha solo 7, ma
non c’è problema, i dirigenti falsificano la data di nascita e lo mettono in campo. Da quel momento inizia la carriera
calcistica di Francesco Coco: a 10 anni viene acquistato dal Como per 13 milioni. A 12 il grande salto nelle giovanili del
Milan. “A 16 anni feci l’esordio in prima squadra, dopo alcuni anni tagliai un altro traguardo importante: il
diploma di geometra grazie alla scuola serale”. Oggi è titolare inamovibile della squadra rossonera, e fa parte della
“rosa” della Nazionale. Non ha hobby particolari, le sue letture preferite sono i poeti maledetti francesi.
Perché un ragazzo che al nord ha costruito la sua vita, fra alcuni anni vuole giocare col Catania?
“Perché il mio cuore è in Sicilia. Fra qualche giorno firmerò un contratto che mi legherà al Milan per altri anni. Poi
verrei volentieri. A patto, ovviamente, che il Catania raggiunga la massima serie. In questa Terra voglio mettere radici.
Milano la vivo giorno per giorno, in Sicilia c’è la mia storia. Sono cresciuto con delle persone straordinarie, e con
loro ho costruito una storia molto forte. In Lombardia tutto questo mi manca”.
Il momento più difficile. Francesco fa una pausa, si concentra su un pensiero: “Nel dicembre del ’98,
quando, ceduto in prestito al Torino di Mondonico, mi infortunai al ginocchio: l’operazione al crociato anteriore sembrava
una cosa semplice, invece creò delle complicazioni a una vena della gamba. Ritardai di due mesi e mezzo la riabilitazione.
In quel momento guardai al futuro con meno coraggio, ebbi la paranoia di non tornare più quello di prima”.
Il momento più bello. “A luglio, quando mi imposi di rimanere nel Milan. Il tecnico Zaccheroni diceva
che non avrei fatto neanche una partita, mi considerava una terza scelta. La società, a mia insaputa, mi aveva ceduto al Monaco.
Con una tenacia incredibile cominciai la preparazione con la squadra rossonera. Convinsi immediatamente il tecnico, che mi
fece giocare il 9 agosto in Champions Leaugue. Da quel momento non sono uscito più di squadra”.
Sui suoi rapporti con i compagni del Milan dice: “Non sempre è facile convivere con 25 persone per tutta
la stagione. A volte si litiga, a volte ci sono delle incomprensioni, l’importante è superare tutto. Per me il Milan
è una seconda famiglia. Il mio migliore amico? Christian Abbiati. Il giocatore col quale ho le maggiori incomprensioni? Billy
Costacurta, con il quale non ho un grande rapporto”.
Poi il discorso scivola sugli allenatori. “Sul piano tecnico, quello che mi ha dato di più è stato Fabio
Capello, ha creduto in me facendomi esordire in serie A. Sul piano umano, proprio Zaccheroni, col quale si era instaurato
un bellissimo rapporto. Mi dispiace che sia stato esonerato. In realtà, Zac non è stato mai nelle grazie del presidente Berlusconi:
mai un elogio, mai un complimento, neanche quando lo scorso anno abbiamo vinto il campionato. Perché? Berlusconi non condivideva
il suo modulo di gioco. Il presidente ha sempre avuto un debole per le mezze punte, voleva che giocasse Boban. Zaccheroni
aveva idee del tutto differenti e teneva Boban in panchina”.
“La verità è che nel calcio c’è troppa tensione. Se certi risultati non arrivano è l’allenatore
a pagare. Non si possono fare sessanta partite in una stagione. Io a dicembre sono stato costretto a fermarmi per una settimana
per una malattia della pelle, la psoriasi, un febbrone causato dalla fortissima tensione emotiva”.
Superata quest’altra difficoltà, Francesco non si è più fermato. Adesso sembra felice.
“Sono soltanto un ragazzo fortunato: ho raggiunto un sogno, e sto sempre accanto alle persone più care. Bello,
no?”.